domenica 31 ottobre 2021

Villa Collenea-Isernia, detta villa Bice

 

Villa Collenea-Isernia, detta villa Bice

La villa risale  al 1804 come attesta l’anno inciso sul portale di travertino. Costruita in stile borbonico quale residenza per i mesi estivi ad uso della famiglia  del  conte  Bernardo  Isernia,  essa  fu  completata  dal figlio  Domenico  prima  di  passare  per  collegamenti  nuziali nelle  mani  dei  patrizi  beneventani  Collenea:  in  seguito  costoro ne presero anche titolo e cognome. A fine Ottocento, il conte  Liberatore  Collenea  Isernia,  per  festeggiare  la  nascita dei  figli  maschi  Raffaele  e  Luigi,  fece  piantare  sul  giardino prospiciente  due cedri  del  Libano che tuttora  svettano  altissimi  e  rigogliosi facendosi  sentinelle  del  complesso che  da allora  assunse  il nome  della sua sposa,  donna  Bice  Coscia dei duchi di Paduli.

La villa si sviluppa su due livelli. Il piano inferiore  è organizzato per i servizi comuni e per l‟intrattenimento degli ospiti (tra l‟altro esiste ancora una cappellina domestica, con altare  ligneo,  sul  passaggio  verso  il  giardino  interno).

Una maestosa  scala  in  travertino  conduce  ai locali  superiori ove sono  collocate  le stanze  per  le  dimore ed  i  servizi  dei  proprietari, singolarmente disposte a ferro di cavallo attorno ad un salone per  le  feste:  tutti  gli ambienti sono  decorati con parati di gusto francese e riquadri con scene mitologiche, accuratamente restaurati. Sul soffitto centrale figura un gustoso affresco,  purtroppo  di  autore  ignoto,sul Mito  di Proserpina figlia di Giove e Cerere. A lato dell’edificio principale, separato  da  un  orto  conchiuso,c’è un  fabbricato  rustico  ad  uso del guardiano e dei contadini di un tempo.


 

 

Il terremoto del 23 novembre 1980

 


Il 23 novembre, ricorre l’ anniversario del terremoto in Irpinia, ma anche il nostro Sannio fu duramente colpito.

Quel giorno il 23 novembre era di domenica, ed era stata una giornata fredda, ma soleggiata, era trascorsa in modo   tranquilla, come tutte le domeniche dei Beneventani, pranzo, partite alla radio, più tardi qualcuno era uscito a fare qualche visita ai parenti, qualcuno era andato al cinema, chi al Massimo, chi al San Marco e chi al Comunale  … ma poiché era calata una fitta nebbia, la maggior parte delle persone era rimasta in casa a vedere 90° minuto e dopo, alle 19,00, tutti su Rai 2 per vedere un tempo di una partita di serie A, quel giorno davano Juve- Inter.

Alle ore 19,34 un boato interminabile, simile ad un esplosione, cambiò la vita di tutti noi.

La prima reazione fu di guardarsi attoniti, senza comprendere bene cosa stesse accadendo, ma quando si prese coscienza che era una forte scossa di terremoto, fummo presi tutti dal panico, e tra mille difficoltà ci riversammo in strada, ma non fu facile per nessuno soprattutto per le persone anziane che avevano anche problemi di deambulazione. Quegli attimi sembrarono interminabili, si vedevano pareti che si avvicinavano e poi si allontanavano, soprammobili che cadevano, lampadari che oscillavano … tutto tremava e tutto sobbalzava.  Dopo ben 90 secondi tutto ebbe fine, ma nessuno di noi poteva immaginare che quello era invece l’inizio di lungo ed interminabile calvario.

Intanto si assisteva a scene di panico: chi urlava, chi imprecava, chi andava alla ricerca dei propri cari … la cosa che mi è rimasta impressa è che ognuno ad alta voce voleva raccontare la propria esperienza e di come l’aveva vissuta. La notte che seguì fu interminabile: dormimmo, come tutti, in auto, nelle vicinanze delle proprie abitazioni, nella 126 di mia madre , oltre a lei, stavamo mia nonna mia sorella ed io. Mettemmo le auto tutte vicino in modo da sentirci più uniti, quella catastrofe, in quel momento, aveva rafforzato il rapporto fra le persone. Tutti si preoccupavano di tutti, le frase più frequente che tutt’ora affiorano alla mia mente erano: “Serve una coperta?”, “ Volete qualcosa di caldo?”, “ Vi accompagno io a casa se dovete prendere qualcosa”. Intanto iniziavano a giungere le prime drammatiche notizie, si iniziava a parlare di morti e di paesi dell’alta Irpinia completamente distrutti; il tutto contornato da uno sciame sismico (centinaia di scosse di assestamento) che sarebbe durato giorni e giorni. Io e la mia famiglia il giorno successivo rientrammo a casa, fortunatamente i danni non furono così ingenti. Feci un giro per la mia Benevento e mi resi conto della situazione, c’erano famiglie accampate da tutte le parti, un grande punto di ritrovo lo avevano fatto dietro allo stadio Santa Colomba dove stavano migliaia di persone che erano scappate da casa solo con i panni che avevano addosso ed avevano bisogno di tutto. Danni ingenti ai fabbricati non ve ne erano stati, eccetto il palazzo dove sta Verdino, sotto le scalette strette, che aveva il tetto ed i cornicioni crollati.

Intanto le immagini dei TG mostravano un disastro senza precedenti, di lì a poco il bilancio sarebbe stato drammatico: Terremoto di magnitudo 6,9/7, pari al 10° grado della scala Mercalli, con epicentro la Campania e la Basilicata. Causò circa 280.000 sfollati, circa 9.000 feriti e 2914 morti.


Il Tempio di Iside e il Bue Apis


Molti anni fa, su viale San Lorenzo affioravano alcune colonne di granito grigio, che fecero supporre il quel posto l’esistenza del Tempio di Iside (Iamalaio), eretto invece nella zona monumentale dell’Arco di Traiano (come ci racconta in suo libro Zazo). Il tempio fu costruito all’epoca di Domiziano, il quale inviò due obelischi di granito rosso, di provenienza egizia, che ne adornavano la facciata: furono eretti nell’ 89 da Lucillo Rufo in omaggio dell’imperatore.

Uno degli Obelischi si trova ora in piazza Papiniano, dove fu collocato nel 1872, essendo stato rimosso dalla primitiva sede accanto alla Cattedrale. L’altro è conservato in tre pezzi nel Museo Provinciale.

E’ da credere che il Bue Apis, sistemato a viale San Lorenzo, faccia parte di questo complesso. Ma la provenienza della statua è molto strana, perché fu rinvenuta a contrada Maccabei, dove rimase a lungo, finchè il Comune per dare lavoro agli operai disoccupati, ne decise il trasporto in Città nel 1629. Gli operai ebbere il lauto salario di un chilo di pane ed una cipolla. L’epigrafe che vi posero scambia l’incarnazione di Osiride con il Toro Egemonico dei Sanniti antichi. Nel Tempio erano collocate delle bellissime statue, ora al Museo Provinciale, tra cui una cista mistica di porfido rosso.

La cista è un recipiente di forma cilindrica e dotato di coperchio, in uso durante l’antichità per contenere oggetti di toletta o di abbigliamento sia maschile che femminile.

Oltre che oggetto di vita quotidiana molto diffuso, ricopriva anche una funzione rituale legata ai Culti Dionisiaci: era chiamata cista mystica, e veniva utilizzata per contenere i serpenti sacri da impiegare durante i riti per la divinità.



 

mercoledì 27 ottobre 2021

Piano di Corte

 


La piazza disadorna e vasta era il cuore del Principato Beneventano che, nel periodo della massima espansione, comprendeva quasi tutta l’Italia meridionale, tanto che fu detto Longobardia Minore o Italia Cistiberina.

Qui sorgeva il palazzo dei Duchi e poi dei Principi longobardi. Non se ne è potuto precisare il sito, né l’epoca della fondazione. E’ probabile che il vastissimo edificio sorgesse nel punto più elevato, dove è ora il palazzo Zamparelli, poiché si trovava in comunicazione con il monastero ed, attraverso questo, con la chiesa di Santa Sofia. Il palazzo era preceduto da un monumento equestre: ed i resti del cavallo marmoreo furono rinvenuti, tempo fa, durante i lavori di pavimentazione della piazza. Un’antica chiesa che sorgeva presso il vico II Trescene, si chiamava appunto San Pietro a Caballo.

Tenuto conto che antichi documenti parlano “ de plano Curiae”, da dove deriva il nome attuale, si può ritenere che i Duchi longobardi vi si stabilirono fin dall’inizio dell’ occupazione (571). Ampliarono poi il palazzo e lo abbellirono col crescere della loro potenza. Certo è che Arechi II datava i suoi diplomi del sacratissimo Palazzo (758), ornato da Paolo Diacono di versi latini per desiderio della principessa Adelperga.




Le Terme

 Nel tratto di via Posillipo esisteva il rione “Bagni” e si ritiene che quella fosse la zona delle antiche Terme: infatti le costruzioni presentano avanzi di struttura romana, senza contare un sotterraneo di casa Mazzoni dove un vasto edificio antico vi sono chiare testimonianze.

Nell’altro versante del colle, in via San Cristiano, esistevano altri edifici del genere, di epoca romana con grandiosi ambienti a volta, non compatibili con dimore private, che indussero a ritenere che le Terme esistessero anche nella zona del Teatro Romano. Le due ipotesi non sono incompatibili, se si pensa che Pompei, città molto più piccola di Benevento, ha messo in luce tre edifici termali, quindi non è escluso che a Benevento ve ne siano altre nei due quinti della Città ancora sepolta.





Il vecchio Tribunale

 


Il vecchio Tribunale di Benevento sorgeva a piazza Guerrazzi, era un ex convento dei PP Domenicani. Prima del 1878 gli uffici giudiziari erano sparsi in diversi punti della Città. L’antico chiostro che forma il primo piano fu trasformato in locali per la Prefettura, per l’Archivio e per il Casellario Giudiziario. Al secondo piano vi era il Tribunale con la Procura. Al terzo, costruito dopo la soppressione del Convento ed andato in parte distrutto dopo i bombardamenti del ’43, aveva sede la Corte d’Assise. I corridoi  freddi  di questo edificio, nei giorni di udienza erano animati dalla grande folla dei cittadini, perseguitati dalla lunga serie degli annosi giudizi civili. Altri campanelli vocianti erano formati dai gruppi di parenti ed amici in attesa dei detenuti che dovevano regolare i loro conti con la giustizia penale, ed alle sentenze negative facevano eco le loro grida e pianti.




La Maorella

  




Alle spalle del ponte sul Calore, costruito da Vanvitelli nel 1766, esistono i ruderi di un antico Ponte detto della Maorella, la cui strada doveva proseguire a valle della Città verso il torrente San Marco: infatti nei lavori di scavo per la ferrovia Benevento-Avellino, fu trovata un’antichissima via, forse la “Latina”, con analogo percorso.

qualcuno sostiene che siano i resti di un vecchio Mulino.

Corsa dell’ Angelo, anni '50

 


Il circuito motociclistico "dell'Angelo", con partenza dal monumento ai Caduti, si svolgeva, per vari giri, sull’anello che comprendeva il viale degli Atlantici e via delle Puglie, si saliva fin su all'Angelo e poi giù a capofitto "pe' sott'a Villa" fino al ritorno al Monumento ai Caduti. Il traguardo stava all’inizio del viale degli Atlantici.

Alla corsa dell’Angelo partecipava sempre una marea di persone. L’ atmosfera era sempre bellissima fra rombi di motori e corse spettacolari. Venivano intere organizzazioni motoristiche da Foggia, Campobasso, Salerno e Napoli, mobilitate con i loro meccanici e stati maggiori. Folla entusiasta e plaudente, il tutto per la grande soddisfazione del Comm. Teobaldo Recine,  ideatore e organizzatore della giornata motoristica.

 Nella prima foto si nota nella fila centrale Alfredo Messina, invece, il secondo da destra di chi guarda, nella seconda fila dall'alto è il fratello Gennaro che partecipò spesso a gare di questo tipo anche con la Vespa. A quelle gare partecipò anche lo spericolato centauro Beneventano e meccanico di moto Bruno Giordano, insieme a lui famoso   pilota Beneventano di auto da corsa Quirino Calabrese e l'altrettanto famoso Beneventano Ziegler. Il graduato del Corpo dei Vigili Urbani con la divisa estiva lo conoscevo di vista ma non ne ricordo il nome.

Nella seconda e terza foto,fasi della corsa.






martedì 12 ottobre 2021

Port'Arsa e Torre della Catena


Oltre all’arco di Traiano è l’unica porta superstite della Città che ne aveva altre sei: Porta Somma presso il Castello, Porta Rettore e Porta Gloriosa, sul versante del calore, Porta San Lorenzo nel viale omonimo; tutte demolite fra il 1865 ed il 1868; Porta Nuova e Porta Rufina, sul versante del Sabato, abbattuta quest’ ultima nel 1927. Port’ Arsa conserva un tipico esempio di fortificazione medioevale , costruita con avanzi romani, è di epoca longobarda. Infatti questa parte della Città fu ricostruita e risistemata dal principe Arechi (758-788) insieme alla Cinta di mura di cui ancora oggi abbiamo la testimonianza.

La vicina Torre della Catena o della Contena, demolita in parte dal rettore Dacomario nel secolo XI per istradarvi il canale del Sabato, e per farne, sotto, un passaggio pubblico, apparteneva a questo complesso di opere militari: è uno snello fortilizio, dal nome suggestivo, a difesa di questa zona priva di bastioni naturali, utile per avvistare qualsiasi nemico in fase di avanzamento dalle sponde del vicino fiume Sabato. Anche per la costruzione della Torre furono utilizzati materiali provenienti da altre costruzioni in disuso, per lo più di epoca romana.





Gennarino Silvestri (Barbiere a domicilio)

 

Gennarino Silvestri ( Barbieri a domicilio)

Gennarino, una figura inconfondibile in una Città come la nostra nella quale da piazza Orsini al rione della Fravola, da piazza IV novembre al Duomo e fino alla zona del fiume Calore e più giù fino a piazza Bissolati, tutti più o meno si conoscevano, se non di nome almeno di vista. In questo ambiente di Città di provincia, con tutti i difetti e le virtù, i personaggi che si distinguevano dagli altri esseri normali non potevano essere ignorati. Essi costituivano il centro dell’attenzione, e se vivi venivano nominati, se defunti venivano ricordati come esempio.

Gennarino era un barbiere, e fra i barbieri della Città vi erano quelli che avevano bottega e quelli che lavoravano soltanto a domicilio e che erano forse i più numerosi. Perché dovete sapere, che nella vecchia Benevento vi era una classe di “clienti” di barbieri che disdegnava andare “a perdere tiempo int’u salone”, mentre altri si servivano volentieri di questo luogo, perché oltre a curare i capelli e la barba si intrattenevano a fare due chiacchiere con gli amici o con il proprietario che era sempre informatissimo su tutti gli avvenimenti del giorno. Nei saloni di periferia, invece, ci si ritrovava per suonare e cantare e, a volte, per creare nuove canzoni. Questi saloni erano sempre provvisti di una chitarra e di un mandolino a disposizione dei clienti pratici di questi strumenti. I barbieri che si recavano a domicilio, con gli attrezzi del mestiere, non lo facevano mai più tardi delle sette del mattino e naturalmente anche loro ragguagliavano il cliente degli ultimi avvenimenti locali o su quelli riportati sulla stampa. Uno di questi artigiani era il notissimo Gennarino Silvestri. Egli all’inizio era socio di un salone molto accorsato che aveva l’insegna “Salone Silvestri e Altieri” ed era posto nel palazzo Tibaldi di fronte alla Basilica di San Bartolomeo, ma preferiva prestare la sua opera in casa dei suoi affezionati clienti che erano in effetti tutti suoi amici.

Era un uomo di età indefinibile, con i capelli brizzolati, baffi a manubrio curatissimi e pizzo diviso a metà, brizzolati come i capelli. Era distintissimo nell’abbigliamento: d’estate giacca e calzoni scuri, calze e scarpe bianche, camicia azzurrina a righe e una cravatta sempre in tono. Mai una volta che avesse avuto la camicia aperta. Sotto il braccio una elegante borsetta nella quale conservava i “ferri del mestiere” ed aveva un incedere signorile come se avesse frequentato una scuola di comportamento, mentre in lui era tutto innato e quel comportamento gli veniva naturale. D’inverno sempre un cappotto a doppio petto blu sopra un vestito grigio con pantaloni a righe tipo diplomatico, scarpe nere con ghette grigie.

In seguito si mise in proprio con la sua attività e aprì un salone per il corso con l’insegna che diceva “Da Gennarino”  

Menechino

 

Benevento, come ogni città che si rispetti aveva le sue figure popolari. Tutte diverse, ma ognuno di loro aveva qualcosa che colpiva la fantasia. Analfabeti o colti, signori o popolani, tutti avevano un qualcosa che li rendeva unici.

Oggi parleremo di Menechino. Egli era di chiara origine contadina ed era solito sostare nei pressi del palazzo Collenea. Indossava dei calzoni che gli stavano molto corti ed aveva una giacca che gli stava molto larga,  come gli stava largo il suo cappello, che era lo strumento della sua attrazione, infatti non appena qualcuno gli gridava:”Gira Menechì, gira” egli iniziava a saltellare, afferrava il cappello per la falda e senza sollevarlo dalla testa lo faceva girare più volte, fra le risate degli astanti che però, gli lasciavano sempre qualche moneta per l’esibizione. Sia d’estate che d’inverno Menechino girava sempre scalzo, i suoi piedi nudi posavano sulla pietra gelida, bagnata o bollente, a secondo delle stagioni, ma lui non avvertiva nessun tipo di sensazione, sotto la pianta dei piedi si era formata una suola naturale di spessi duroni. Una volta che una persona pietosa tentò di regalargli un paio di scarpe, le rifiutò sdegnato: “ Che vuliss fa?” disse “vuliss mett i pied mie Carcerat?”.  

Marchetiello

 

Egli aveva un volto molto bello, occhi azzurri e barba grigia   molto curata, indossava vestiti consumati dal tempo e un cappello stravecchio. Era un solitario e non si sapeva da dove venisse, ne se avesse parenti in Città. Viveva di accattonaggio, ma con tale dignità che l’elemosina diventava onorario. I suoi “clienti” frequentavano il Bar Ristorante Roma, punto d’incontro della borghesia dell’epoca. Marchetiello  arrivava davanti al Bar con portamento altero e si fermava a qualche metro di distanza guardando con aria distratta il benefattore di turno, non era ma lui ad avvicinarsi ma era il signorotto che si recava da lui e gli lasciava qualche moneta. Intascava senza guardare e borbottava qualcosa senza che si capisse se era un ringraziamento o una imprecazione. Si allontanava lento e regale seguito dall’ammirazione degli astanti, i quali in effetti gli volevano bene e soddisfacevano in qualche modo il suo orgoglio senza mortificare la sua naturale nobiltà.

Luigi 'u Becco

 

Luigi ‘o Becco

Lo chiamavano così perché aveva il naso uguale al becco di un uccello, una specie di peperone sotto a due occhi piccoli e vicini fra loro. Era molto popolare, le ragazze lo accerchiavano e lo pigliavano affettuosamente in giro. Lui si rallegrava ed il suo volto si rischiarava in una grande risata. Aveva il pallino della musica ed era “Membro Onorario” della banda cittadina, e ogni volta che suonando,  percorreva il centro della Città, Luigi si metteva   davanti e avanzava con passo corto e cadenzato, solo allora il suo volto inespressivo diventava raggiante. Era convinto di suonare il clarinetto, ma il realtà quello che portava alla bocca era un pezzo di legno che non somigliava affatto ad uno strumento musicale, e nel frattempo emetteva dei suoni con la bocca che non avevano nulla a che fare con ciò che suonava la banda e meno male che quei suoni erano coperti dai pesanti ottoni del complesso. Le persone lo applaudivano e Luigi ne era felice perchè si sentiva importante. La banda lo aveva adottato e lo considerava una mascotte, anche perché se piaceva tanto, una grossa componente del gradimento era dovuta a Luigi ‘o Becco, capace di suonare un pezzo di legno.

Don Antonio 'a Palla

 

Don Antonio ‘a palla

Era un uomo di mezza età, un tipo comune che sarebbe passato inosservato, se non avesse avuto il grande fardello di una enorme ernia. Gli ballava fra le coscie e l’obbligava a camminare a gambe larghe. Avanzava lungo il corso dondolandosi lentamente. Andava tutto bene fino a quando non veniva avvistato dagli “scugnizzi” che cominciavano a stuzzicarlo. Lo facevano molto da vicino, tanto don Antonio, ostacolato dall’ernia, non avrebbe mai potuti raggiungerli. Lo sfottò era decisamente provocatorio. Mettevano le due mani allo stesso modo di quando si regge un melone e le facevano dondolare prima a destra e poi a sinistra, mentre gli gridavano:”Don Antò…il mondo è una palla”, alludendo chiaramente all’ernia gigantesca. Don Antonio non poteva ignorarli, perché gli facevano il gesto allusivo proprio sotto al naso e non sapeva contenere la rabbia. Dalla sua bocca uscivano frasi molto pittoresche e irripetibili, e nel momento di massima ira, si mordeva le mani fino a far uscire i sangue.

Ciccone

 

La figura più popolare di Benevento, dei primi quaranta anni del secolo scorso è stato certamente Ciccone: “Artista della Pernacchia”… era un filosofo del popolo, amico degli studenti e dei soldati. Era un omone che pesava molto più di un quintale.

Aveva un piccolo negozio nei pressi di piazza Roma, e amava dire che vendeva il caldo d’inverno e il freddo d’estate, perché vendeva le “Varole” (caldarroste) d’inverno e la neve d’estate. Bisogna chiarire il concetto di vendere la neve … quando Ciccone era giovane, non esistevano ancora il frigoriferi ed il ghiaccio industriale ancora non era stato inventato. Perciò si vendeva la neve che veniva raccolta d’inverno sulle montagne e conservata per mesi in grandi buche, coperte con foglie di quercia. Veniva poi estratta durante i mesi estivi e trasportata in Città in blocchi squadrati e accuratamente coperti. Così Ciccone, d’estate vendeva la neve  dell’inverno precedente che teneva coperta sotto sacchi di juta vuoti e all’occorrrenza, a seconda della richiesta dell’acquirente, ne tagliava per due o tre soldi.

Come ho accennato precedentemente, Ciccone, era un professore della pernacchia, ne aveva create di ogni tipo: dolce, amara, secca, stizzosa, lunga, cantata, lamentosa, tremolante, trionfale…

Gli studenti del vicino Liceo, che all’epoca era in piazza Giannone (oggi piazza Roma), venivano addestrati da lui a fare le pernacchie e alla fine del corso gli dava anche il voto ed erano orgogliosi quando il “Maestro” assegnava loro un bel “30 e lode”.

Quando vi era un cambio di governo o succedeva qualcosa di eclatante in Città, egli smorzava gli entusiasmi con una frase filosofica rimasta storica:”semp chell’è”… ancora oggi questa frase viene ripetuta ricordando la filosofia di Ciccone.

Era amico anche dei molti soldati che erano di stanza alla caserma Guidoni, i quali d’inverno prima di rientrare si fermavano da lui a comprare le “Varole”. Venivano richiamati dal suo invito:” scarfateve ‘e mmane e ‘o cor c’ ‘a varola cavere”. Ciccone scherzava con loro, comandava l’attenti e il dietro front, e li divertiva. Si legava a loro, li sentiva suoi figli. Quasi tutti quei ragazzi, finito l’addestramento partivano per il fronte e Ciccone nel salutarli ne soffriva moltissimo.

PALAZZO PAOLO V

 

Già nel settembre 1598 l' Ing. Giovanni Fontana, si era incontrato con i Consoli della città di Benevento, per risolvere il problema della costruzione della casa comunale ( Palazzo Paolo V). il progetto del Fontana meritò l'approvazione di tutti  e nel 1607 l'opera potè dirsi completata, tanto che Pietro Piperno decantò pubblicamente il " Palatium  civitatis" o " Palatium communitatis" ( come è menzionato nelle deliberazioni comunali de 1626)











domenica 10 ottobre 2021

Carrozze, Calessi, Carri e Carrette

 Prima dell’avvento delle auto, a Benevento, si circolava solo con mezzi trainati da cavalli e a volte anche da buoi.

Sicuramente non c’era lo smog, ma c’era un odore molto forte,di escrementi di animali, soprattutto di urina, che  ti entrava nel naso.

Per gli spostamenti tra i diversi centri abitati vi era il servizio pubblico delle Diligenze, sostituite in seguito dalle Corriere. Esse erano chiuse, si entrava da una porticina e aveva i sedili frontali, in genere, potevano ospitare 4/6 persone. I ricchi, invece, per questi tipi di spostamenti avevano le Carrozze private e molto spesso si potevano permettere anche il lusso di stipendiare un cocchiere.

Per gli spostamenti in Città, le persone, si servivano dei Calessi, che erano guidati direttamente dai proprietari. Esse erano scoperte, ma all’occorrenza si chiudevano con una cappotte ad ombrello. Il loro servizio era quello dei moderni Taxi e sostavano in attesa di clienti, principalmente davanti al Duomo e alla Stazione Centrale.

Per trasportare le merci vi erano i Carri e le Carrette, chiamati Traini, ed erano i Furgoni e i Camioncini di adesso




Le Terme

 

 

Nel tratto di via Posillipo esisteva il rione “Bagni” e si ritiene che quella fosse la zona delle antiche Terme: infatti le costruzioni presentano avanzi di struttura romana, senza contare un sotterraneo di casa Mazzoni dove un vasto edificio antico vi sono chiare testimonianze.

Nell’altro versante del colle, in via San Cristiano, esistevano altri edifici del genere, di epoca romana con grandiosi ambienti a volta, non compatibili con dimore private, che indussero a ritenere che le Terme esistessero anche nella zona del Teatro Romano. Le due ipotesi non sono incompatibili, se si pensa che Pompei, città molto più piccola di Benevento, ha messo in luce tre edifici termali, quindi non è escluso che a Benevento ve ne siano altre nei due quinti della Città ancora sepolta.




Il vecchio Tribunale a piazza Guerrazzi

 

Il vecchio Tribunale di Benevento sorgeva a piazza Guerrazzi, era un ex convento dei PP Domenicani. Prima del 1878 gli uffici giudiziari erano sparsi in diversi punti della Città. L’antico chiostro che forma il primo piano fu trasformato in locali per la Prefettura, per l’Archivio e per il Casellario Giudiziario. Al secondo piano vi era il Tribunale con la Procura. Al terzo, costruito dopo la soppressione del Convento ed andato in parte distrutto dopo i bombardamenti del ’43, aveva sede la Corte d’Assise. I corridoi  freddi  di questo edificio, nei giorni di udienza erano animati dalla grande folla dei cittadini, perseguitati dalla lunga serie degli annosi giudizi civili. Altri campanelli vocianti erano formati dai gruppi di parenti ed amici in attesa dei detenuti che dovevano regolare i loro conti con la giustizia penale, ed alle sentenze negative facevano eco le loro grida e pianti.




 

Arco del Sacramento

 




 

In via Carlo Torre, al termine del palazzo Arcivescovile, sorge l’Arco del Sacramento, già ritenuto una Porta Romana della Città; ma l’ubicazione dei monumenti contemporanei e la struttura stessa dell’edificio permette di stabilire che si tratta di una Arco Onorario, sicuramente più antico dell’Arco di Traiano. All’esterno ne rimane un massiccio corpo di fabbrica a laterizi con due volte sovrapposte e con due nicchie laterali, privo di rivestimento e di sculture. Sulla faccia interna si notano i resti della trabeazione marmorea con due sporti, sostenuti da un complesso di colonne, di cui una soltanto è superstite.

Il rudere è simile agli Archi Trionfali adiacenti al Tempio di Giove nel Foro di Pompei. Se si pensa che il Tempio di Giove in Benevento esisteva nel luogo della Cattedrale, la corrispondenza è perfetta. D’altra parte si hanno notizie sicure del Campidoglio beneventano, da identificarsi, come a Pompei, col Tempio di Giove: Svetonio Tranquillo ricorda che  su l’ area del Campidoglio sorgeva la statua di Orbilio Pupillo, maestro di Orazio. E’ questa dunque la zona del Foro, di cui rimane ancora la memoria nella denominazione di Cortile del Foro, data ad una piccola area verso la metà del vico di San Gennaro. I bombardamenti del ’43 rasero al suolo questa parte della Città da dove sono venuti fuori innumerevoli frammenti di colonne e di strutture antiche.


I Pionieri del Calcio a Benevento


 

Non esistono esemplari che fissino l’anno in cui il gioco del calcio fu importato nella città di Benevento. La fotografia risale al lontanissimo anno1908. E’ senza dubbio la più antica scattata a Benevento.

In quell’anno, dunque si può stabilire che il calcio abbia fatto il suo ingresso nel Capoluogo del Sannio. Ma è altrettanto indubbio che il primo circolo sportivo sorto a Benevento risale al 1913. Fu denominato “Circolo Sportivo Catapane” ed aveva sede al lato destro , in fondo , dell’attuale mercato cittadino, in piazza Commestibili. Il merito dell’iniziativa va al compianto Enrico Ambrosini che possiamo stabilire essere stato il primo vero giocatore di calcio di Benevento, il primo allenatore, il primo capitano della squadra calcistica.

La “catapane” aveva nelle sue fila, oltre al citato Ambrosini, il valoroso portiere Renato Panzone, Umberto Tedesco, Umberto Fernelli, Ezio Tognacci, Luigi Bocchini, Armelindo Spinelli, Vincenzo Ascione. La compagine, i cui giocatori vestivano una maglia con fondo nero,  muoveva i primi passi ufficiali attraverso incontri amichevoli con la vicina squadra di avellino e con quella di Torre annunziata, i migliori giocatori di allora erano Ambrosini e Tognacci.

La “Catapane” più tardi costituiva tre  squadre e già nell’aria si sentiva che questo nuovo gioco  avrebbe riscosso un interesse popolare.

Cionostante, bisogna arrivare al 1927 per trovare esemplari di compagine calcistica beneventana. In quest’anno il rag. Pompilio affiancava Ambrosini, nella qualità di dirigente, e presentava agli sportivi una squadra che, pur annoverando Ambrosini e Panzone, poteva essere considerata tecnicamente migliorata. Infatti, Paolinelli,Rossi, Scaglione, Capparuccia, Fochi, De Rienzo, Filippelli, Lamparelli,Jevolella cominciavano a calzare le scarpe bullonate.

 Nel 1927, Halmos costituiva l’ “Associazione Calcio Benevento”e non poche sono state le vicende che si sono succedute fino all’immediato dopoguerra.

 

Testo tratto dal libro “Dieci anni di sport nel Sannio”, del 1958, a cura di Edoardo Caselli e presentazione di Francesco “Ciccio” Romano

 

 

Tracciato schematico della Ferrovia Valfortore e sue diramazioni


 

Questo era il tracciato della ferrovia Valfortore secondo il progetto dell’ Ing. Capuano, approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nella tornata del 16 giugno 1913. La ferrovia nei territori delle tre Province interessate, doveva avere il seguente sviluppo chilometrico.

1 Provincia di Benevento: da Benevento al confine della Provincia di Campobasso, presso il fiume Fortore km 72,300;

2 Provincia di Molise: dal confine della Provincia di Benevento al ponte 13 Archi km 7,300;

3 Provincia di Capitania: da ponte 3 Archi a San Severo km 55,700; da ponte 3 Archi a Lucera km 47,900; dal Volturino all’innesto della Valfortore km 18,500 e cioè nella Provincia di Capitanata complessivamente km 122,100.

Totale dello sviluppo chilometrico già approvato km 201,700.

Era, inoltre allo studio del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici due diramazioni: la prima da Ponte 3 Archi a Campobasso e l’altra, proposta dall’ on. Fraccacreta, da Torremaggiore a Chieuti, attraversando San Paolo Civitale, Serracapriola fino a giungere Chieuti stazione per innestarsi sulla rete Foggia-Bologna.

Alla fine del documento vi era scritto: Vogliami quindi augurarci che questo progetto diventi subito un fatto compiuto.

I Mulini di Benevento

 

I mulini di Benevento

L’esistenza dei mulini lungo l’omonima via che inizia dalla base delle “scale strette”, si interseca con Via delle Puglie all’altezza dell’ex Consorzio Agrario di Benevento per poi proseguire diritta fino alla Centrale del Gas (o“gasometro”) dopo la quale inizia la Contrada Piano Morra, è documentata sin dal 1600 quando si iniziò a disegnare le prime mappe o piantine della città italiane, poi raccolte insieme da Angelo Rocca.

 

     Nel bel mezzo di Contrada Piano Morra, quasi in corrispondenza dell’attuale Stadio Comunale “Ciro Vigorito” (già “Santa Colomba”) – esattamente in località “Palata” - “Marrata” (o “Palati”) – vi era una chiusa (che oggi immagino alquanto arrugginita e corrosa dal tempo), un “portellone” secondo il gergo dei ragazzi degli anni sessanta, una “palizzata” – da cui probabilmente derivò il nome della località – che veniva aperta per far defluire l’acqua del fiume Sabato in un canalone costruito artificialmente che partiva dalla suddetta località per attraversare tutto il resto della Contrada (scorrendo a poca distanza dalla strada che ancora taglia in due la zona)fino ad arrivare all’attuale Hotel “Una – Il Molino” e alla vicina Centrale dell’Enel per poi entrare, sul retro di quest’ultima, in un boschetto di salici (oggi non più esistente perché dopo il terremoto del 1980 fu sacrificato per la costruzione delle case popolari ex lege 219/81 e successivamente della nuova Chiesa di Santa Maria degli Angeli) per poi riapparire su Via Napoli sotto il ponticello di Santa Maria della Libera. Il percorso del canale “Morra” proseguiva attraversando l’attuale Via Abbazia (anticamente nota come località “Acqualonga”) e procedeva quasi in parallelo con la Via Torre della Catena, passava sotto il Bastione Longobardo  per poi rientrare nel letto del fiume Sabato subito dopo il Ponte Leproso.

 

     Il canale “Morra” difficilmente superava la larghezza di 2 metri, mentre la profondità media era di perlomeno di 1,80 m., era molto pescoso (vi abbondavano carpe e dei pesci chiamati “balbi”) e volgarmente veniva chiamato “Fonte” o “Fonda”.

 

     I mulini storici alimentati da questo canale non erano molti, ma degli stessi vi è traccia su quelle piantine del diciassettesimo secolo cui ho fatto cenno prima: Sant’Eramo, Nuovo, Santa Barbara, Rummo. Gli stessi erano siti in Via dei Mulini. Poi, in località Acqualonga esisteva il mulino omonimo, chiamato anche “Mulino Cavalieri”, probabilmente dal nome del proprietario. Più avanti, a ridosso del Ponte Leproso, vi era il Mulino Pacifico, poi adibito a Macello Comunale ed oggi, dopo un’attenta ristrutturazione, è sede del Laboratorio Teatrale della Compagnia Stabile Solot. Nella medesima zona di Ponte Leproso dovevano esserci altri due mulini, i cosiddetti “Mulini del Vescovo”, di cui, però, non vi è traccia nelle piantine del Rocca. 1

 

     Il toponimo “Piano Morra” prende nome da una nobile famiglia beneventana di origine irpina, precisamente dall’antico paese di “Morra Irpina” in provincia di Avellino (oggi diventato “Morra De Sanctis” in quanto diede i natali al famoso critico letterario, scrittore ed uomo politico Francesco De Sanctis), famiglia ricchissima che possedeva tutta la zona in parola che era fertilissima e che, approfittando della presenza del fiume Sabato, fu poi dotata di mulini e di frantoi, tutti di proprietà della nobile famiglia che ha avuto anche l’onore ed il prestigio di vedere uno dei suoi esponenti più illustri, Alberto di Morra, assurgere al trono di Pietro col nome di Papa Gregorio VIII. Mi preme sottolineare che nel corso dei secoli la famiglia Morra ebbe a cedere i diritti ed i privilegi su alcuni dei suoi beni al Clero beneventano, più precisamente a qualche singola Chiesa o Parrocchia.

 

     Un piccolo inciso: nella zona di Via dei Mulini vi era anticamente (presumibilmente fino alla fine dell’Ottocento o al massimo agli inizi del Novecento) una conceria che si serviva delle acque della “Fonda” e che ovviamente era anch’essa di proprietà della famiglia Morra. Probabilmente questa conceria doveva trovarsi alla base della Rampa San Barbato (quell’erta che da Via dei Mulini conduce a Via delle Puglie all’altezza dell’ex Consorzio Antitubercolare) dove fino alla fine degli anni ottanta vi era un vecchio fabbricato che era diventato poi sede dell’Officina Meccanica dei fratelli Cardillo: questo fabbricato, agli inizi degli anni sessanta – quando il sottoscritto con la sua famiglia andò ad abitare in quella zona – veniva volgarmente chiamato dagli abitanti della zona “Accunz”, termine che io da piccolo credevo, erroneamente,  mutuato dall’italiano “acconciare”, cioè, riferito all’attività lavorativa che veniva svolta in quei locali, aggiustare i motori delle macchine; mentre l’esperienza di oggi mi porta a pensare che esso sia derivato da “conceria”. Nel corso degli anni Ottanta il fabbricato dell’antica conceria fu abbattuto per lasciare il posto ad una moderna costruzione in cui ha avuto sede per una ventina di anni la concessionaria “Cardillo” della Peugeot, mentre oggi vi è un negozio che vende abbigliamento e merci varie (“Piazza di Spagna”).

 

     I mulini di cui abbiamo parlato prima – Sant’Eramo, Nuovo, Santa Barbara – erano tutti vicini gli uni agli altri e quasi sicuramente nelle immediate vicinanze dell’attuale Hotel “Una – Il Molino”. Da ricerche che ho eseguito negli ultimi tempi, mi sento di escludere l’identificazione del Mulino di Santa Barbara con la vecchia chiesa omonima i cui resti sono ancora visibili all’interno dell’area “Ex Enel” (in origine chiamata appunto “Officina Meccanica Santa Barbara”, poi “Società Elettrica Campana” ed infine Enel): ciò perché ho trovato dei vecchi testi in cui viene nominata la Chiesa di Santa Barbara che era stata ceduta dal Collegio di San Bartolomeo agli Economi della Confraternite del SS. Rosario e da questa veniva usata per seppellire coloro che venivano condannati a morte (tra i testi citati ho avuto modo di leggere un atto del Notaio Geronimo Grasso databile tra il 1616 e il 1633). Una curiosità: gli adepti della Confraternite del SS. Rosario si incaricavano di andare a prelevare il condannato a morte presso il carcere allora posto all’interno della Rocca dei Rettori, l’accompagnavano durante il percorso che si snodava attraverso la Via Magistrale – attuale Corso Garibaldi – per poi girare a sinistra all’altezza dell’attuale Via Capitano Rampone, già discesa di Santa Caterina e dai beneventani chiamata in dialetto locale “a scesimpisi” (la discesa degli impiccati), confluire su Via Gaetano Rummo ed arrivare nello slargo antistante la Porta Rufina (sotto le “scale strette”) dove avvenivano le esecuzioni capitali sia per decapitazione che per impiccagione; “…i confratelli del SS. Rosario accompagnavano i condannati a morte con le loro preghiere e il loro affetto e provvedevano poi, a loro spese, a seppellire i miseri resti nella Chiesa di Santa Barbara , in strada pubblica per le molendina sulle rive del fiume Sabato, che sta fuori Porta Rufina a mano manca vicino alle mulina…chiesetta che nel lontano 21 maggio 1596 avevano graziosamente avuto dallo insigne Collegio di San Bartolomeo per seppelirci li condannati dalla giustizia ” (da “Aspetti di vita beneventana nei secoli XVII-XVIII” di don Giovanni Giordano). E in un altro antico testo ho letto che nel 1504 la Chiesa di Santa Barbara (eretta nel tredicesimo secolo) fu unita alla Chiesa della Pietà da Papa Giulio II. Quindi, se la Chiesa di Santa Barbara esisteva come luogo di culto sin dal 1200 e nel 1600 era ancora tale, non poteva essere identificata dal Rocca come molino, anche se molto probabilmente i due siti – chiesa e mulino – dovevano essere molto vicini, quasi contigui. Notizie più recenti mi dicono che nel corso dell’Ottocento i primi rappresentanti della dinastia Rummo, già titolari di un operoso mulino ed oggi di un pastificio conosciuto in tutto il mondo, giravano per le pianure pugliesi alla ricerca del grano migliore per comprarlo e macinarlo nel mulino di Sant’Eramo che essi avevano preso in fitto. Poi pensarono di fittare un altro mulino, chiamato “Mulino Nuovo”, e solo quando questo diventò obsoleto e fatiscente, pensarono di costruirsene uno che prese il nome della famiglia. Ricordo che negli anni Sessanta per entrare nel mulino – che negli anni diventò anche pastificio – bisognava attraversare uno stretto ponticello proprio sopra la “Fonda”. I terremoti del 1962 e del 1980 arrecarono gravi danni all’opificio per cui la famiglia Rummo pensò fosse giunto il momento di delocalizzare l’industria trasferendola nella Zona Industriale di Ponte Valentino, cosa che avvenne nei primi anni Novanta. Cambiarono le acque, da quelle del fiume Sabato a quelle del fiume Calore, ma il prodotto rimase identico, cioè una pasta eccelsa che viene distribuita ed apprezzata in tutto il mondo. Di recente, la ditta Rummo ha saputo risollevarsi dalla sciagura della terribile alluvione dell’ottobre del 2015. 2

 

     Del Mulino “Acqualonga” o “Cavalieri” ho avuto modo di dare qualche cenno e qui aggiungo solo che fino a qualche anno fa in Via Abbazia era ancora possibile la struttura esterna dell’antico opificio che poi è stato buttato giù. Oggi sul luogo si vede solo un’area sterrata e circoscritta da un reticolato, segnale di un prossimo cantiere edilizio che vedrà la costruzione di qualche insediamento abitativo o di un raccordo stradale.

 

     Notizie di altri mulini le ho trovate quando ho effettuate ricerche su Dacomario, un personaggio dell’aristocrazia longobarda di Benevento che fu insignito di onorificenze e di privilegi dall’ultimo principe longobardo di Benevento, Landolfo VI verso la fine dell’anno Mille. A Dacomario fu concesso di “gestire” il Ponte Leproso, nel senso di riscuotere i dazi su merci e uomini che, provenienti dal Regno di Napoli attraverso la Via Appia (di cui il Ponte Leproso costituiva l’ultimo tratto prima dell’ingresso in città) dovevano entrare in Benevento o soltanto attraversarla per dirigersi poi verso Roma o la Puglia. Sul Ponte Leproso il Dacomario ebbe anche la concessione per costruire una torre di avvistamento di cui oggi non è rimasta traccia alcuna, mentre nelle terre nelle immediate adiacenze del ponte, che gli erano state concesse in proprietà, Dacomario costruì anche alcuni mulini. Probabilmente si tratta di quei “Mulini del Vescovo” di cui ho sentito solo parlare senza trovare fonti storiche, se non la notizia tramandata oralmente che nel Novecento gli stessi furono gestiti dalla famiglia Tiseo che li ha amministrati fino a poco dopo la Seconda guerra mondiale.

I molini erano ubicati sulle sponde dei fiumi Sabato e Calore, ed utilizzavano l’energia fluviale, che convogliata attraverso sistemi rudimentali, ha consentito di azionare le macine nel corso dei secoli.

Durante il 1300 si assiste ad una concentramento di queste attività sul fiume Sabato, scelta giustificata dalla poderosa portata del fiume Calore, che con le sue piene alluvionali, rappresentava una continua minaccia per le provvisorie ed a volte instabili strutture dei molini, arrecando peraltro notevoli danni ai “molitories” o “molendinarii”, rispettivamente “mugnaio” e “molinaro” che di volta in volta erano costretti ad intervenire ricostruendo le strutture danneggiate.

Il molino viene importato a Benevento molto probabilmente nel periodo romano, quando nell’Emporium detto dei Santi Quaranta, si ammassavano grandi quantità di grano, alimento base per gli eserciti.

La vicinanza dell’Emporium ai due fiumi, Sabato e Calore, induce a credere all’esistenza di rudimentali molini, necessari per la macinatura del grano.

Quando l’Impero Romano comincia la sua decadenza, anche Benevento, come colonia, subisce la stessa sorte e perde quel ruolo di propulsore dell’attività agricola ed economica del Sud.

A partire dal 400 non si hanno più notizie dell’attività dei molini certamente a causa delle continue e disastrose invasioni barbariche.

Bisogna attendere la venuta nell’Italia meridionale, dei Longobardi nel 500 per ritrovare notizie di una ripresa delle attività agricole ed economiche e quindi dei molini.

Con Zotone inizia il dominio longobardo nel Ducato di Benevento, che Arechi II nel 774 trasformerà in Principato.

La città in questo periodo inizia la sua ripresa, conserva la sua struttura romana nelle sue linee essenziali e sviluppa la sua vita socio-economica, che si concentra nella zona bassa, Triggio e Foro Romano.

Grande importanza riveste la presenza dei due fiumi Calore e Sabato, sulle sponde di quest’ultimo si sviluppa anche l’industria dei panni con la creazione di diverse gualchiere di proprietà di mercanti amalfitani, salernitani e pugliesi, che trovano interesse a stabilirsi nella città che fiorisce notevolmente.

Le prime notizie relative all’attività molitoria, risalgono all’VIII secolo, quando Arechi, duca di Benevento, concede al Monastero di S. Sofia l’uso di un molino con casa in località Acqualonga, lungo le sponde del fiume Sabato.

Si ha poi notizia nel X secolo di una vendita fatta a Giovanni, Abate del Monastero di S.Sofia eletto nel 920 Vescovo di Benevento, da Adeltruda, vedova di Gaumperto, di alcuni terreni con l’aggiunta della terza parte del Molino di Acqualonga “iuxta flumen Sabati”, che in seguito verrà indicato come “Molino del Vescovo”.

Ancora, con diploma del 1077, Landolfo VI, concede a Dacomario una fabbrica sul Ponte Lebbroso, con facoltà di aprire fra la torre e le mura, altro ingresso alla città, detto “Porta Terrea”, che in seguito verrà detta Port’Arsa.

Quando il 27 novembre 1077 muore Landolfo, ultimo principe longobardo, senza lasciare eredi, finisce la dominazione di questo popolo e, per effetto dell’accoro tra Papa Leone IX e l’imperatore Enrico III, detto “il nero”, nasce il ducato Pontificio di Benevento.

Dei molini di Benevento si parla in una controversia sorta nel XVI secolo per portare a Napoli l’acqua dei fiumi Beneventani, prelevandola dalle ricche sorgenti del Serino, ed utilizzarla per il funzionamento dei molini sorti lungo la via per Napoli.

La città traeva grandi vantaggi economici e commerciali dal transito del grano proveniente alla Puglia e dalla Valle del Fortore.

Si stima che a quel tempo erano oltre centoventi i muli da traino che trasportavano il grano dalla Puglia al Regno di Napoli e che periodicamente attraversavano la dogana pontificia di Benevento che ricavava un utile di seimila scudi annui.

Nacquero altre controversie tra le due città, come quella che avvenne tra Napoli, il Ducato di Benevento ed i mercanti beneventani tra il 1707 ed il 1719, accusati di fare incetta del grano in transito con grave danno alla libertà di commercio.

Ad accentuare ulteriormente le ostilità, sopraggiunse una grande inondazione nell’ottobre 1907 del Sabato e del Calore che distrusse alcuni molini e ne danneggiò altri.

Una volta riparati, le farine inviate a Napoli furono dichiarate di cattiva qualità, e solo l’intervento del cardinale Orsini consentì di sventare il grossolano imbroglio preparato dal doganiere di Montesarchio.

Questi, volendo screditare la farina macinata nei molini di Benevento diffondeva giudizi negativi sulla sua qualità.

Il Cardinale Orsini, in difesa del libero commercio che apportava beneficio al popolo beneventano scriveva:”…senza commercio si disertano le osterie, patiscono notabilissimo danno i molini ove i mulattieri macinano i grani che portano….”.

Secondo la ricostruzione fatta da Paolo Pacca, risale al 1828 la soluzione della complessa diatriba legata alla realizzazione di un nuovo formale, quando i complateari dei molini, i signori duca Mascambruni, Controvieri, d’Egizi, la Mensa Arcivescovile e la Badia Sofiana

acquistano da Bartolomeo Morra per 150 ducati al tomolo tanto terreno quanto basta a realizzare un alveo per portare acqua ai molini.

La vicenda ebbe inizio nel 1528, e secondo Goffredo Morra, che tra i proprietari dei molini

aggiunge il barone Latini, si concluse con un atto del notaio Camillo Verre dell’1/2/1598 e riguardò solo il terreno per la nuova Parata.

Il formale fu poi rifatto nuovo nel 1607 e qui ci fu una scrittura privata che recepiva l’ordine coattivo di papa Paolo V che superava l’opposizione di Goffredo Morra e degli eredi di Luzio Morra, arcivescovo di Otranto.

Riguardo a tali lavori si ha notizia della consegna da parte dell’arcivescovo di Benevento di 50 ducati di carta a Geronimo Mascambroni come quota spettante all’arcivescovado per la realizzazione dell’alveo che si stava facendo per servizio della palata da don Camillo Morra, con patto di restituzione del denaro se la costruzione di detto formale non fosse cominciata entro una settimana.

Lo stesso Geronimo Morra consegna a Camillo Morra 48 ducati, 3 tarì e 7 grani, che, con i 50 di carta consegnati dal notaio Angelo Cairella per conto del vescovo, completano i 98 ducati e rotti che sono la porzione spettante ai due molini della mensa arcivescovile e della Badia Soriana.

Il formale fu poi rifatto ma questa volta in muratura, in sostituzione del precedente in legno e nel marzo del 1740, i lavori furono affidati, con atto del notaio Carmine Ventura, alla impresa dei fratelli Gaetano e Carmine Zoppoli, con una spesa di 4000 ducati.

Un vero disciplinare, per la utilizzazione delle acque del fiume Sabato, viene redatto nel 1820, con l’istituzione del Catasto, già ordinato da Papa Pio VII con “Motu proprio” del 6 luglio 1816.

Nelle Mappe Cappuccini e Monte S.Pietro, è chiaramente riportato il corso del canale, con la esatta ubicazione dei molini e della diga di sbarramento.

L’atto conciliativo, emesso dal Tribunale di Prima Istanza della delegazione apostolica di Benevento il 25 novembre 1828, stabiliva, le modalità di utilizzo delle acque del canale Morra, fra i diversi utilitari.

Il canale, attraversava per i 2/3 del suo sviluppo le proprietà del principe Camillo Morra, e l’istanza di Luigi Sanseverino, principe di Bisignano, determinò la vendita forzata dei beni in esecuzione della sentenza emessa dal tribunale di Benevento , il 22 marzo 1881.

Alla data del 2 maggio 1603, il molino di Sant’Elmo era di proprietà di Bartolomeo Controviero e di suo figlio Geronimo, mentre i molini della Noce e di S. Barbara sono di Geronimo Mascambruno.