I mulini di Benevento
L’esistenza dei mulini lungo l’omonima
via che inizia dalla base delle “scale strette”, si interseca con Via delle
Puglie all’altezza dell’ex Consorzio Agrario di Benevento per poi proseguire
diritta fino alla Centrale del Gas (o“gasometro”) dopo la quale inizia la
Contrada Piano Morra, è documentata sin dal 1600 quando si iniziò a disegnare
le prime mappe o piantine della città italiane, poi raccolte insieme da Angelo
Rocca.
Nel bel mezzo di Contrada Piano Morra, quasi in corrispondenza
dell’attuale Stadio Comunale “Ciro Vigorito” (già “Santa Colomba”) –
esattamente in località “Palata” - “Marrata” (o “Palati”) – vi era una chiusa
(che oggi immagino alquanto arrugginita e corrosa dal tempo), un “portellone”
secondo il gergo dei ragazzi degli anni sessanta, una “palizzata” – da cui
probabilmente derivò il nome della località – che veniva aperta per far
defluire l’acqua del fiume Sabato in un canalone costruito artificialmente che
partiva dalla suddetta località per attraversare tutto il resto della Contrada
(scorrendo a poca distanza dalla strada che ancora taglia in due la zona)fino
ad arrivare all’attuale Hotel “Una – Il Molino” e alla vicina Centrale
dell’Enel per poi entrare, sul retro di quest’ultima, in un boschetto di salici
(oggi non più esistente perché dopo il terremoto del 1980 fu sacrificato per la
costruzione delle case popolari ex lege 219/81 e successivamente della nuova
Chiesa di Santa Maria degli Angeli) per poi riapparire su Via Napoli sotto il
ponticello di Santa Maria della Libera. Il percorso del canale “Morra”
proseguiva attraversando l’attuale Via Abbazia (anticamente nota come località
“Acqualonga”) e procedeva quasi in parallelo con la Via Torre della Catena,
passava sotto il Bastione Longobardo per
poi rientrare nel letto del fiume Sabato subito dopo il Ponte Leproso.
Il canale “Morra” difficilmente superava la larghezza di 2 metri, mentre
la profondità media era di perlomeno di 1,80 m., era molto pescoso (vi
abbondavano carpe e dei pesci chiamati “balbi”) e volgarmente veniva chiamato
“Fonte” o “Fonda”.
I mulini storici alimentati da questo canale non erano molti, ma degli
stessi vi è traccia su quelle piantine del diciassettesimo secolo cui ho fatto
cenno prima: Sant’Eramo, Nuovo, Santa Barbara, Rummo. Gli stessi erano siti in
Via dei Mulini. Poi, in località Acqualonga esisteva il mulino omonimo,
chiamato anche “Mulino Cavalieri”, probabilmente dal nome del proprietario. Più
avanti, a ridosso del Ponte Leproso, vi era il Mulino Pacifico, poi adibito a
Macello Comunale ed oggi, dopo un’attenta ristrutturazione, è sede del
Laboratorio Teatrale della Compagnia Stabile Solot. Nella medesima zona di
Ponte Leproso dovevano esserci altri due mulini, i cosiddetti “Mulini del
Vescovo”, di cui, però, non vi è traccia nelle piantine del Rocca. 1
Il toponimo “Piano Morra” prende nome da una nobile famiglia beneventana
di origine irpina, precisamente dall’antico paese di “Morra Irpina” in
provincia di Avellino (oggi diventato “Morra De Sanctis” in quanto diede i
natali al famoso critico letterario, scrittore ed uomo politico Francesco De
Sanctis), famiglia ricchissima che possedeva tutta la zona in parola che era
fertilissima e che, approfittando della presenza del fiume Sabato, fu poi
dotata di mulini e di frantoi, tutti di proprietà della nobile famiglia che ha
avuto anche l’onore ed il prestigio di vedere uno dei suoi esponenti più
illustri, Alberto di Morra, assurgere al trono di Pietro col nome di Papa
Gregorio VIII. Mi preme sottolineare che nel corso dei secoli la famiglia Morra
ebbe a cedere i diritti ed i privilegi su alcuni dei suoi beni al Clero
beneventano, più precisamente a qualche singola Chiesa o Parrocchia.
Un piccolo inciso: nella zona di Via dei Mulini vi era anticamente
(presumibilmente fino alla fine dell’Ottocento o al massimo agli inizi del
Novecento) una conceria che si serviva delle acque della “Fonda” e che
ovviamente era anch’essa di proprietà della famiglia Morra. Probabilmente
questa conceria doveva trovarsi alla base della Rampa San Barbato (quell’erta
che da Via dei Mulini conduce a Via delle Puglie all’altezza dell’ex Consorzio
Antitubercolare) dove fino alla fine degli anni ottanta vi era un vecchio
fabbricato che era diventato poi sede dell’Officina Meccanica dei fratelli
Cardillo: questo fabbricato, agli inizi degli anni sessanta – quando il
sottoscritto con la sua famiglia andò ad abitare in quella zona – veniva
volgarmente chiamato dagli abitanti della zona “Accunz”, termine che io da
piccolo credevo, erroneamente, mutuato
dall’italiano “acconciare”, cioè, riferito all’attività lavorativa che veniva
svolta in quei locali, aggiustare i motori delle macchine; mentre l’esperienza
di oggi mi porta a pensare che esso sia derivato da “conceria”. Nel corso degli
anni Ottanta il fabbricato dell’antica conceria fu abbattuto per lasciare il
posto ad una moderna costruzione in cui ha avuto sede per una ventina di anni
la concessionaria “Cardillo” della Peugeot, mentre oggi vi è un negozio che
vende abbigliamento e merci varie (“Piazza di Spagna”).
I mulini di cui abbiamo parlato prima – Sant’Eramo, Nuovo, Santa Barbara
– erano tutti vicini gli uni agli altri e quasi sicuramente nelle immediate
vicinanze dell’attuale Hotel “Una – Il Molino”. Da ricerche che ho eseguito negli
ultimi tempi, mi sento di escludere l’identificazione del Mulino di Santa
Barbara con la vecchia chiesa omonima i cui resti sono ancora visibili
all’interno dell’area “Ex Enel” (in origine chiamata appunto “Officina
Meccanica Santa Barbara”, poi “Società Elettrica Campana” ed infine Enel): ciò
perché ho trovato dei vecchi testi in cui viene nominata la Chiesa di Santa
Barbara che era stata ceduta dal Collegio di San Bartolomeo agli Economi della
Confraternite del SS. Rosario e da questa veniva usata per seppellire coloro
che venivano condannati a morte (tra i testi citati ho avuto modo di leggere un
atto del Notaio Geronimo Grasso databile tra il 1616 e il 1633). Una curiosità:
gli adepti della Confraternite del SS. Rosario si incaricavano di andare a prelevare
il condannato a morte presso il carcere allora posto all’interno della Rocca
dei Rettori, l’accompagnavano durante il percorso che si snodava attraverso la
Via Magistrale – attuale Corso Garibaldi – per poi girare a sinistra
all’altezza dell’attuale Via Capitano Rampone, già discesa di Santa Caterina e
dai beneventani chiamata in dialetto locale “a scesimpisi” (la discesa degli
impiccati), confluire su Via Gaetano Rummo ed arrivare nello slargo antistante
la Porta Rufina (sotto le “scale strette”) dove avvenivano le esecuzioni
capitali sia per decapitazione che per impiccagione; “…i confratelli del SS.
Rosario accompagnavano i condannati a morte con le loro preghiere e il loro
affetto e provvedevano poi, a loro spese, a seppellire i miseri resti nella
Chiesa di Santa Barbara , in strada pubblica per le molendina sulle rive del
fiume Sabato, che sta fuori Porta Rufina a mano manca vicino alle
mulina…chiesetta che nel lontano 21 maggio 1596 avevano graziosamente avuto
dallo insigne Collegio di San Bartolomeo per seppelirci li condannati dalla
giustizia ” (da “Aspetti di vita beneventana nei secoli XVII-XVIII” di don
Giovanni Giordano). E in un altro antico testo ho letto che nel 1504 la Chiesa
di Santa Barbara (eretta nel tredicesimo secolo) fu unita alla Chiesa della
Pietà da Papa Giulio II. Quindi, se la Chiesa di Santa Barbara esisteva come
luogo di culto sin dal 1200 e nel 1600 era ancora tale, non poteva essere
identificata dal Rocca come molino, anche se molto probabilmente i due siti –
chiesa e mulino – dovevano essere molto vicini, quasi contigui. Notizie più
recenti mi dicono che nel corso dell’Ottocento i primi rappresentanti della
dinastia Rummo, già titolari di un operoso mulino ed oggi di un pastificio
conosciuto in tutto il mondo, giravano per le pianure pugliesi alla ricerca del
grano migliore per comprarlo e macinarlo nel mulino di Sant’Eramo che essi
avevano preso in fitto. Poi pensarono di fittare un altro mulino, chiamato “Mulino
Nuovo”, e solo quando questo diventò obsoleto e fatiscente, pensarono di
costruirsene uno che prese il nome della famiglia. Ricordo che negli anni
Sessanta per entrare nel mulino – che negli anni diventò anche pastificio –
bisognava attraversare uno stretto ponticello proprio sopra la “Fonda”. I
terremoti del 1962 e del 1980 arrecarono gravi danni all’opificio per cui la
famiglia Rummo pensò fosse giunto il momento di delocalizzare l’industria
trasferendola nella Zona Industriale di Ponte Valentino, cosa che avvenne nei
primi anni Novanta. Cambiarono le acque, da quelle del fiume Sabato a quelle
del fiume Calore, ma il prodotto rimase identico, cioè una pasta eccelsa che
viene distribuita ed apprezzata in tutto il mondo. Di recente, la ditta Rummo
ha saputo risollevarsi dalla sciagura della terribile alluvione dell’ottobre
del 2015. 2
Del Mulino “Acqualonga” o “Cavalieri” ho avuto modo di dare qualche
cenno e qui aggiungo solo che fino a qualche anno fa in Via Abbazia era ancora
possibile la struttura esterna dell’antico opificio che poi è stato buttato
giù. Oggi sul luogo si vede solo un’area sterrata e circoscritta da un
reticolato, segnale di un prossimo cantiere edilizio che vedrà la costruzione
di qualche insediamento abitativo o di un raccordo stradale.
Notizie di altri mulini le ho trovate quando ho effettuate ricerche su
Dacomario, un personaggio dell’aristocrazia longobarda di Benevento che fu
insignito di onorificenze e di privilegi dall’ultimo principe longobardo di
Benevento, Landolfo VI verso la fine dell’anno Mille. A Dacomario fu concesso di
“gestire” il Ponte Leproso, nel senso di riscuotere i dazi su merci e uomini
che, provenienti dal Regno di Napoli attraverso la Via Appia (di cui il Ponte
Leproso costituiva l’ultimo tratto prima dell’ingresso in città) dovevano
entrare in Benevento o soltanto attraversarla per dirigersi poi verso Roma o la
Puglia. Sul Ponte Leproso il Dacomario ebbe anche la concessione per costruire
una torre di avvistamento di cui oggi non è rimasta traccia alcuna, mentre
nelle terre nelle immediate adiacenze del ponte, che gli erano state concesse
in proprietà, Dacomario costruì anche alcuni mulini. Probabilmente si tratta di
quei “Mulini del Vescovo” di cui ho sentito solo parlare senza trovare fonti
storiche, se non la notizia tramandata oralmente che nel Novecento gli stessi
furono gestiti dalla famiglia Tiseo che li ha amministrati fino a poco dopo la
Seconda guerra mondiale.
I molini erano ubicati sulle sponde
dei fiumi Sabato e Calore, ed utilizzavano l’energia fluviale, che convogliata
attraverso sistemi rudimentali, ha consentito di azionare le macine nel corso
dei secoli.
Durante il 1300 si assiste ad una
concentramento di queste attività sul fiume Sabato, scelta giustificata dalla
poderosa portata del fiume Calore, che con le sue piene alluvionali,
rappresentava una continua minaccia per le provvisorie ed a volte instabili
strutture dei molini, arrecando peraltro notevoli danni ai “molitories” o
“molendinarii”, rispettivamente “mugnaio” e “molinaro” che di volta in volta
erano costretti ad intervenire ricostruendo le strutture danneggiate.
Il molino viene importato a Benevento
molto probabilmente nel periodo romano, quando nell’Emporium detto dei Santi
Quaranta, si ammassavano grandi quantità di grano, alimento base per gli
eserciti.
La vicinanza dell’Emporium ai due
fiumi, Sabato e Calore, induce a credere all’esistenza di rudimentali molini,
necessari per la macinatura del grano.
Quando l’Impero Romano comincia la sua
decadenza, anche Benevento, come colonia, subisce la stessa sorte e perde quel
ruolo di propulsore dell’attività agricola ed economica del Sud.
A partire dal 400 non si hanno più
notizie dell’attività dei molini certamente a causa delle continue e disastrose
invasioni barbariche.
Bisogna attendere la venuta
nell’Italia meridionale, dei Longobardi nel 500 per ritrovare notizie di una
ripresa delle attività agricole ed economiche e quindi dei molini.
Con Zotone inizia il dominio
longobardo nel Ducato di Benevento, che Arechi II nel 774 trasformerà in
Principato.
La città in questo periodo inizia la
sua ripresa, conserva la sua struttura romana nelle sue linee essenziali e
sviluppa la sua vita socio-economica, che si concentra nella zona bassa,
Triggio e Foro Romano.
Grande importanza riveste la presenza
dei due fiumi Calore e Sabato, sulle sponde di quest’ultimo si sviluppa anche
l’industria dei panni con la creazione di diverse gualchiere di proprietà di
mercanti amalfitani, salernitani e pugliesi, che trovano interesse a stabilirsi
nella città che fiorisce notevolmente.
Le prime notizie relative all’attività
molitoria, risalgono all’VIII secolo, quando Arechi, duca di Benevento, concede
al Monastero di S. Sofia l’uso di un molino con casa in località Acqualonga,
lungo le sponde del fiume Sabato.
Si ha poi notizia nel X secolo di una
vendita fatta a Giovanni, Abate del Monastero di S.Sofia eletto nel 920 Vescovo
di Benevento, da Adeltruda, vedova di Gaumperto, di alcuni terreni con
l’aggiunta della terza parte del Molino di Acqualonga “iuxta flumen Sabati”,
che in seguito verrà indicato come “Molino del Vescovo”.
Ancora, con diploma del 1077, Landolfo
VI, concede a Dacomario una fabbrica sul Ponte Lebbroso, con facoltà di aprire
fra la torre e le mura, altro ingresso alla città, detto “Porta Terrea”, che in
seguito verrà detta Port’Arsa.
Quando il 27 novembre 1077 muore
Landolfo, ultimo principe longobardo, senza lasciare eredi, finisce la
dominazione di questo popolo e, per effetto dell’accoro tra Papa Leone IX e
l’imperatore Enrico III, detto “il nero”, nasce il ducato Pontificio di
Benevento.
Dei molini di Benevento si parla in
una controversia sorta nel XVI secolo per portare a Napoli l’acqua dei fiumi
Beneventani, prelevandola dalle ricche sorgenti del Serino, ed utilizzarla per
il funzionamento dei molini sorti lungo la via per Napoli.
La città traeva grandi vantaggi
economici e commerciali dal transito del grano proveniente alla Puglia e dalla
Valle del Fortore.
Si stima che a quel tempo erano oltre
centoventi i muli da traino che trasportavano il grano dalla Puglia al Regno di
Napoli e che periodicamente attraversavano la dogana pontificia di Benevento
che ricavava un utile di seimila scudi annui.
Nacquero altre controversie tra le due
città, come quella che avvenne tra Napoli, il Ducato di Benevento ed i mercanti
beneventani tra il 1707 ed il 1719, accusati di fare incetta del grano in
transito con grave danno alla libertà di commercio.
Ad accentuare ulteriormente le
ostilità, sopraggiunse una grande inondazione nell’ottobre 1907 del Sabato e del
Calore che distrusse alcuni molini e ne danneggiò altri.
Una volta riparati, le farine inviate
a Napoli furono dichiarate di cattiva qualità, e solo l’intervento del
cardinale Orsini consentì di sventare il grossolano imbroglio preparato dal
doganiere di Montesarchio.
Questi, volendo screditare la farina
macinata nei molini di Benevento diffondeva giudizi negativi sulla sua qualità.
Il Cardinale Orsini, in difesa del
libero commercio che apportava beneficio al popolo beneventano scriveva:”…senza
commercio si disertano le osterie, patiscono notabilissimo danno i molini ove i
mulattieri macinano i grani che portano….”.
Secondo la ricostruzione fatta da
Paolo Pacca, risale al 1828 la soluzione della complessa diatriba legata alla
realizzazione di un nuovo formale, quando i complateari dei molini, i signori
duca Mascambruni, Controvieri, d’Egizi, la Mensa Arcivescovile e la Badia
Sofiana
acquistano da Bartolomeo Morra per 150
ducati al tomolo tanto terreno quanto basta a realizzare un alveo per portare
acqua ai molini.
La vicenda ebbe inizio nel 1528, e
secondo Goffredo Morra, che tra i proprietari dei molini
aggiunge il barone Latini, si concluse
con un atto del notaio Camillo Verre dell’1/2/1598 e riguardò solo il terreno
per la nuova Parata.
Il formale fu poi rifatto nuovo nel
1607 e qui ci fu una scrittura privata che recepiva l’ordine coattivo di papa
Paolo V che superava l’opposizione di Goffredo Morra e degli eredi di Luzio
Morra, arcivescovo di Otranto.
Riguardo a tali lavori si ha notizia
della consegna da parte dell’arcivescovo di Benevento di 50 ducati di carta a
Geronimo Mascambroni come quota spettante all’arcivescovado per la
realizzazione dell’alveo che si stava facendo per servizio della palata da don
Camillo Morra, con patto di restituzione del denaro se la costruzione di detto
formale non fosse cominciata entro una settimana.
Lo stesso Geronimo Morra consegna a
Camillo Morra 48 ducati, 3 tarì e 7 grani, che, con i 50 di carta consegnati
dal notaio Angelo Cairella per conto del vescovo, completano i 98 ducati e
rotti che sono la porzione spettante ai due molini della mensa arcivescovile e
della Badia Soriana.
Il formale fu poi rifatto ma questa
volta in muratura, in sostituzione del precedente in legno e nel marzo del
1740, i lavori furono affidati, con atto del notaio Carmine Ventura, alla
impresa dei fratelli Gaetano e Carmine Zoppoli, con una spesa di 4000 ducati.
Un vero disciplinare, per la
utilizzazione delle acque del fiume Sabato, viene redatto nel 1820, con
l’istituzione del Catasto, già ordinato da Papa Pio VII con “Motu proprio” del
6 luglio 1816.
Nelle Mappe Cappuccini e Monte
S.Pietro, è chiaramente riportato il corso del canale, con la esatta ubicazione
dei molini e della diga di sbarramento.
L’atto conciliativo, emesso dal
Tribunale di Prima Istanza della delegazione apostolica di Benevento il 25
novembre 1828, stabiliva, le modalità di utilizzo delle acque del canale Morra,
fra i diversi utilitari.
Il canale, attraversava per i 2/3 del
suo sviluppo le proprietà del principe Camillo Morra, e l’istanza di Luigi
Sanseverino, principe di Bisignano, determinò la vendita forzata dei beni in
esecuzione della sentenza emessa dal tribunale di Benevento , il 22 marzo 1881.
Alla data del 2 maggio 1603, il molino
di Sant’Elmo era di proprietà di Bartolomeo Controviero e di suo figlio
Geronimo, mentre i molini della Noce e di S. Barbara sono di Geronimo
Mascambruno.
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